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Intervista con Dimmish: “La musica è questione di attitudine”

By xceed

January 31, 2020

Segnatevi il nome (…se già non lo conoscete): Dimmish è uno di quei player in rapida&ripida ascesa nel gioco della club culture. Un’ascesa che partendo dall’Italia lui sta sviluppando decisamente su scala globale (…facile a dirsi e desiderarsi, difficile a farsi) grazie ad una perfetta, chirurgica padronanza dei ferri del mestiere. Nulla di strano che l’anno scorso ad un certo punto sia arrivata la chiamata di Solid Grooves, AKA la label portata avanti da Micheal Bibi e Pawsa – giusto a proposito di gente in crescita esponenziale e grandiosa. E poi ci sono date tra Asia, Oceania, Sud America, ovviamente la cara vecchia Europa… c’è questo, e c’è molto altro. Abbiamo voluto farci una bella chiacchierata con lui.

   

Qual è il significato nel 2020 dei termini “tech house” e “minimal”? Connota ancora un suono preciso, o è più un’attitudine? E se è un’attitudine, come la si potrebbe descrivere?

Nascono sicuramente come entità distinte, ma provenienti da un unico ramo. In passato la differenza tra esse era più marcata, mentre oggi credo che l’ibridazione tra i generi, non solo minimal e tech house in realtà, sia un dato di fatto. Tralasciando i casi estremi, oggi possiamo parlare più di “attitudine” che di una sonorità ben delineata, sia a livello di live che di produzioni. La sperimentazione porta alla creazione di nuove sonorità che tendono a fluidificare il concetto di genere. Per questo forse è più giusto parlare di “attitudine”.

 

Quanto è difficile oggi farsi largo in un mercato ormai affollatissimo come quello dei dj/producer? Quali sono gli elementi che possono fare la differenza, oltre ovviamente al talento?

Senza dubbio e forse per fortuna, il mondo della musica elettronica è di facile accesso per molti aspiranti dj. Difficile invece è proiettare la propria passione per la musica verso il pubblico, e riuscire a differenziarsi tra tutti. Per far questo ci vuole sicuramente una ricerca continua: ascoltare moltissimi dischi, passare ore e ore in studio a perfezionare la propria personalità musicale.

 

Quali sono stati ad oggi i momenti più significativi della tua carriera? Quando hai avuto l’impressione che questa “cosa” della musica stava diventando seria, un lavoro vero e proprio e non più un hobby?

Fra i momenti più significativi ci sono certamente il primo tour in Sud America, la prima data londinese sold out una settimana prima, così come il passaggio sulla BBC Radio 1. Fare musica è per me innanzitutto una predilezione.

Mi ritengo molto fortunato e sono contento di poter fare della mia passione un lavoro: un lavoro che mi permette di viaggiare molto (non senza sacrifici), conoscere colleghi e approfondire conoscenze che nascono con persone che hanno i miei stessi interessi. Forse ho iniziato a rendermi conto che la musica stava anche diventando un impegno full time nel momento in cui ho ricevuto feedback molto positivi sia dal pubblico che da dj che considero colonne portanti del genere; a quel punto, ho capito che era arrivato il momento di investire il massimo delle energie nella musica.

 

 

Come è fatto il tuo club ideale?

Di sicuro deve avere un impianto adatto al luogo e al tipo di suono che si propone, in modo da render chiaro che il fuoco del club è la musica. Dev’essere frequentato da un pubblico caloroso: che ha voglia di divertirsi, ma allo stesso tempo con la curiosità di ascoltare quello che il dj ha da proporre di personale. Ancora meglio se il locale ha uno stile underground, minimale, dove la collocazione della console permetta un contatto diretto con il dancefloor: questo è un fattore che ritengo essenziale.

 

Qual è il ruolo di Beatport oggi? Te lo chiedo perché per molti essere popolari su Beatport è una situazione ambigua, in qualche modo “non autentica”: è un pregiudizio che ha dei motivi, e che ha ancora ragione di esistere?

Beatport è sicuramente lo store per dj più affermato, anche se negli ultimi anni anche Spotify è diventato un ottimo canale di visibilità per la musica elettronica. Sono stato eletto best seller per il genere minimal di Beatport e ho avuto il piacere di essere invitato negli uffici di Berlino – un’esperienza prima digitale e poi reale! All’interno di Beatport può sembrare difficile orientarsi per la quantità ingente di release, tuttavia non ho mai sentito esprimere giudizi negativi o parlare di non autenticità. Secondo me è un buono strumento per gli artisti perché permette di esporre la propria musica al pubblico, che può così conoscere tanti artisti simili ai preferiti, esplorando la “coerenza artistica” e lo stile peculiare di ognuno.

 

Qual è stato il segreto del successo di “Lucy Liu”?

Lucy Liu” è stata eletta track minimal del 2019 da Beatport e buona parte della fortuna del disco sia legata alla costruzione ritmica del brano che esprime, in maniera decisa, il mio stile musicale. Ad alimentare la diffusione del disco hanno contributo anche i numerosi dj affermati che hanno suonato e stanno suonando la tuttora traccia.

 

Hai avuto la fortuna e, soprattutto, il merito di arrivare a suonare ai quattro angoli del mondo, un traguardo davvero di spessore: esistono differenze tra il suonare in questa o quella nazione? Se sì, qual è quella dove ti trovi meglio, dove senti più affinità col dancefloor?

Sì, ci sono molte differenze. Dallo stile di organizzazione del party alla differente concezione di club, fino ad arrivare al pubblico, più caloroso in alcuni paesi e più impostato in altri. In Sud America il pubblico è molto focoso, si crea l’atmosfera giusta, sicuramente anche grazie alle location molto suggestive e solitamente in esterno: rooftop party, feste in spiaggia, eccetera. In Europa suono spesso nei club, di regola al chiuso tranne durante il periodo estivo, situazioni molto più underground. Mi piace anche suonare in Italia: il riscontro con il dancefloor è sempre positivo, si riesce a creare un clima di festa e mi sento sempre a casa.

 

 

Qual è la situazione oggi in Italia? Esiste questa “crisi” di cui tanto si parla?

In Italia molti locali hanno chiuso i battenti e il settore della musica elettronica si è indebolito. Oltre a questo, ci sono altri fattori che hanno influito sulla crisi del clubbing nazionale: manca una cultura ben radicata, a differenza di altre nazioni europee come Germania, Olanda e Inghilterra. Non è ben radicata, ma non solo: spesso non è nemmeno ben alimentata dagli “addetti ai lavori” che non vogliono investire in situazioni musicali non-mainstream. Ma per fortuna ci sono le eccezioni: organizzazioni che hanno la voglia e la passione giusta per portare avanti un discorso stilistico che esula da quello meramente economico.

 

Quali sono i tuoi colleghi in questo momento più in forma artisticamente? Quelli che quando senti o vedi pensi “Accidenti, che bravo…”?

Apprezzo molto le sonorità che propongono i DJ di Fuse London.

 

Classica domanda finale: quali sono i tuoi progetti più importanti per questo 2020?

A febbraio avrò l’occasione di suonare in Asia e Oceania: Armenia, Thailandia, Australia e Nuova Zelanda. A marzo tornerò in Sud America, passando per il Brasile e l’Argentina per poi concludere il tour in Uruguay. Nella seconda metà dell’anno stiamo pianificando insieme al mio management di lanciare un evento… ma non posso ancora anticipare molto, perché è in via di sviluppo. A livello di produzione, di recente ho concluso due EP in uscita per due label che stimo molto e verranno rilasciati nel corso del 2020.

 

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(Immagine di copertina © Dimmish press kit)